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  • Riporto qui di seguito un bellissimo articolo della rivista Micromega.

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    Riporto qui di seguito un bellissimo articolo della rivista Micromega.

    17 anni senza Solženicyn: l’eredità dello scrittore delle “mani aperte”

    Il 3 agosto 2008 ci lasciava lo scrittore che ha portato alla luce le “fognature” del sistema di sterminio sovietico, criticando al contempo un Occidente obnubilato dal consumismo.

    “Ci è mancato l’amore della libertà… ci siamo AFFRETTATI a sottometterci, ci siamo sottomessi con PIACERE. Abbiamo semplicemente MERITATO tutto quanto seguì”.

    In questa nota a piè di una pagina di Arcipelago Gulag, la monumentale cronaca letteraria della discesa nelle “fognature” del sistema di sterminio sovietico, il premio Nobel Aleksandr Solženicyn enuncia, in poche parole, l’avvio del popolo russo verso il proprio annunciato martirio, enfatizzando, con i caratteri in stampatello, i tre scalini verso l’abisso: la passiva velocità della sottomissione, segnata dal piacere della delega totale, fino alla punizione derivante dalla mancata assunzione di responsabilità.

    L’ambìto premio come scrittore gli era stato conferito dall’Accademia svedese nel 1970 “per la forza etica con cui ha portato avanti le tradizioni imprescindibili della letteratura russa”: ben tre anni prima, quindi, della pubblicazione – clandestina, poi diffusa in tutto il mondo – del sopracitato bestseller che porterà il termine “gulag” nel vocabolario dell’uomo comune come simbolo del sopruso, della violenza di Stato studiata e programmata a tavolino con l’intento esplicito di piegare un’intera popolazione al regime del partito unico.

    Ma chi entrava nei gulag? Cosa doveva succedere per ritrovarsi in un campo di lavoro forzato dove, chi non resisteva, impazziva, si suicidava o veniva fucilato, mentre i più forti cercavano di conservare i ricordi per raccontare? Bastava poco: una conversazione tra amici ascoltata da orecchie indiscrete, magari da agenti in incognito della Ceka, la polizia segreta sovietica voluta e fondata da Lenin, poco dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917, contro i “nemici del popolo”; un articolo di giornale non perfettamente in linea con i dettami del Partito comunista sovietico; o financo una lettera privata indirizzata a un conoscente: fu questo, esattamente, il capo di imputazione che nel 1945 colse di sorpresa Solženicyn, comunista marxista della prima ora, ufficiale dell’Armata rossa nella Seconda guerra mondiale, infamato dall’accusa di “propaganda e attività antisovietiche” per aver scritto, in quello scambio epistolare, critiche a Stalin, seppur non in chiave anticomunista ma con un focus centrato sulla repressione e sul culto della personalità di cui il dittatore era già oggetto. L’articolo del Codice penale sovietico che consentì la sua condanna a otto anni di gulag, il 58, divenne famoso per la sua eterogeneità ed elasticità di applicazione che consentiva al regime di arrestare, incarcerare e condannare chiunque a pene lunghe, lunghissime e terminali, per un semplice sospetto, una delazione non provata (la “spiomania”, come appellata dallo scrittore), un errore casuale sul lavoro, un furto o una conversazione inquadrabili automaticamente come “reati contro il popolo”. Promulgato nel 1926, l’articolo 58, a cui Solženicyn dedica numerose pagine di Arcipelago Gulag, consisteva in 14 punti, ognuno dedicato a una categoria di reati e sotto-reati. Le pene più blande si aggiravano intorno agli otto-dieci anni, le più severe – comminate anche per reati non gravi ma definiti come perniciosi per l’unità del sistema comunista – arrivavano sino alla fucilazione. I punti decimo e undicesimo, in particolare, vengono raccontati come un capolavoro di capriole burocratico-giudiziarie contro la libertà di pensiero e di opinione: una pena potenzialmente illimitata poteva essere comminata per “propaganda o agitazione contenente un appello all’abbattimento, danneggiamento o affievolimento del potere sovietico […] come pure la diffusione, produzione o custodia di letteratura avente tale contenuto”, laddove per letteratura si lasciava intendere anche uno scritto di un diario personale o uno scambio epistolare tra due persone – come nel caso del nostro protagonista -, numero di individui sufficiente a definire una presunta “organizzazione” contro il Soviet. Ma il capolavoro geo-giudiziario dell’articolo 58 era senz’altro il punto secondo: la “rivolta armata, o la presa del potere nei grandi e nei piccoli centri […] allo scopo di separare con la violenza qualche parte dell’Unione delle repubbliche”, portava alla fucilazione immediata. Con questi criteri, ad esempio, viene processata, all’inizio del 1930, l’intera Alleanza per la liberazione dell’Ucraina, tanto per definire in termini temporali le radici di un conflitto che ancora oggi è sotto i nostri occhi. Se Mosca interveniva, i nazionalisti separatisti estoni, lettoni, lituani, turkestani e ucraini erano candidati immediati a pene minime detentive dai dieci ai venticinque anni.

    “Chi oggi non canta con noi è contro di noi”, recitano i versi del poeta rivoluzionario Majakovskij, ironicamente citato da Solženicyn come esempio di strumentalizzazione, in chiave repressiva e censoria, esercitata dalle varie estrinsecazioni del potere sovietico.

    In questa cornice, come fu possibile che un ex internato dei gulag, quale era il nostro protagonista, uscito da quella prigione nel 1953 (“grazie prigione per essere stata nella mia vita”), potesse pubblicare, nel 1962, il suo primo racconto, Una giornata di Ivan Denisovič, se proprio in quelle pagine si metteva nero su bianco la vita di un prigioniero che sopravvive a un lager?

    L’evento che aveva creato uno spazio consono era stata la morte di Stalin, avvenuta proprio nel 1953, a cui era succeduto Nikita Chruščëv, responsabile di una parziale apertura riformistica che portò, a seguito del disvelamento progressivo dei crimini commessi dal dittatore suo predecessore, a un sottile e fragilissimo disgelo politico-ideologico. Fu in questa finestra che riuscì a incunearsi Solženicyn, cercando di liberare l’arte letteraria, con il contributo di altri mirabili scrittori e poeti come Evgenij Evtušenko, dalle catene del cosiddetto “realismo socialista”, metodo letterario “ufficiale” imposto da Stalin: in conformità a esso, i racconti non dovevano narrare la realtà per ciò che essa era ma piuttosto per ciò che avrebbe dovuto essere, nel compimento di una funzione-missione pedagogica attribuita allo scrittore, nella veste di soldato di penna del regime comunista. Tale appiattimento letterario nella terra che aveva dato i natali ai maggiori scrittori del globo, da Tolstoj a Dostoevskij, viene descritto causticamente da una delle penne-vittima più abili e ironiche degli anni Cinquanta-Sessanta, Andrej Sinjavskij, nel cui pamphlet Che cos’è il realismo socialista?, che gli costerà una condanna pesante a sette anni di gulag, è riportata, nell’introduzione all’edizione italiana, la frase socratica che egli pronunciò alla lettura della sua condanna: “Sono stato accusato di avere scritto che ai tempi di Stalin esistevano campi di deportazione. Ma ditemi, di grazia: dove sarò condotto io stesso quando uscirò da quest’aula?”.

    L’ottimismo ideologico sfrenato del realismo socialista imposto dal regime nell’atto di una continua “profilassi sociale” – un ottimismo direzionato allo “Scopo” unico, come denominato da Sinjavskij, sulla cui strada non importava più contare quanti fossero i caduti – conosce quindi un leggero rallentamento nell’era riformistica di Chruščëv: cambia nome in “volontarismo letterario etico”, a indicare una tendenza a rinnovare la società anche attraverso la coscienza critica degli scrittori. Nel breve lasso temporale di tale parziale rinnovamento si inserisce quindi la pubblicazione di Ivan Denisovič nel 1962, autorizzata dallo stesso Chruščëv in persona (leggenda vuole che, tergendosi una lacrima, il leader fosse rimasto colpito da come il protagonista, vessato dalla prigionia, non perdesse mai di vista il lavoro nel campo, unica forma di sollievo dalla tortura quotidiana). Ma non ci si lasci ingannare dalle iniziali aperture kruscioviane, seguite al XX Congresso del Pcus nel 1956, in conseguenza del quale il mondo venne a conoscenza delle purghe, delle persecuzioni, delle carestie artificiali (l’Holodomor in Ucraina, tra il 1932 e il 1933, provocò più di cinque milioni di vittime) e dei gulag voluti da Stalin. Chruščëv, difatti, usò ciò che gli serviva – letteratura inclusa – più per egolatria che per reale convincimento, facendo quasi subito marcia indietro quando, temendo che la situazione gli sfuggisse di mano, determinò che il volontarismo letterario dovesse essere pesantemente limitato e circoscritto al periodo staliniano più come denuncia morale rivolta al passato che come critica politico-ideologica verso il presente.

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    Ma il Partito, che a questo punto aveva ormai fagocitato tutto lo Stato, avverte come a rischio il crinale intrapreso da Chruščëv; pertanto lo depone, sostituendolo con una triarchia, definita “soluzione provvisoria”, formata da Suslov, Kosygin e Brežnev: sarà quest’ultimo, infine, a prenderne definitivamente il posto, inaugurando, dal 1964, un’èra di nuova centralizzazione del potere, stagnazione economica e aggressioni geo-politiche sparse (la stroncatura armata della Primavera di Praga nel 1968 e l’invasione dell’Afghanistan undici anni più tardi). È in questo contesto che Solženicyn è percepito sempre più come figura non gradita: diventa automaticamente un samidatz, uno scrittore clandestino, tanto che, all’atto del conferimento del Nobel nel 1970, ormai messo sotto controllo dal Kgb (evoluzione della primitiva Ceka), egli rinuncia ad andare a ritirarlo a Stoccolma nel timore che, non permettendogli di rientrare in patria, il partito mettesse sotto sequestro la sua famiglia. L’Accademia svedese lo accoglierà però a braccia aperte quattro anni più tardi quando lo scrittore, ormai definitivamente espulso dall’Urss con un decreto del Soviet Supremo, si trasferirà prima in Germania Ovest, poi in Svizzera e infine nel Vermont, negli Stati Uniti.

    E proprio all’alba degli anni Settanta, in concomitanza con il Nobel, la sua fama esplode ancor di più grazie alla pubblicazione di Arcipelago Gulag, stampato in Italia nel 1974, trasformando Solženicyn, agli occhi del Pcus, in una mina vagante ormai fuori controllo, in grado di svelare al mondo intero, in modo irrefrenabile e progressivo, le “fognature” del sistema sovietico in cui, come “fiumane”, perderanno la vita oltre 20 milioni di persone, molti dei quali kulaki, contadini, “forti agricoltori, lavoratori, forti semplicemente anche nelle loro convinzioni. Il nome infamante di kulak [in origine così erano chiamati i rivenditori rurali che si arricchivano tramite l’usura] era usato per stroncare la FORZA dei contadini”. Con il Decreto sulla terra del 1917, i bolscevichi avevano infatti eliminato la proprietà privata, collettivizzando forzatamente le terre in kolkhoz (aziende agricole), inizialmente bene accette dai contadini che nel tempo, però, impoveriti, frustrati e delusi, si diedero ad azioni di sabotaggio di terreni e mezzi di coltivazione, represse violentemente nel sangue. Fu allora che, con uno straripamento, la “fiumana” di vittime andò ad allargare spaventosamente i confini dell’“arcipelago gulag”. Solženicyn descrive quindi il progetto sovietico come una sorta di neo-colonialismo violento autoctono, avente come oggetto la sottomissione dei contadini e dei proletari – un vero e proprio tradimento, quello loro perpetrato -, passati dall’essere sudditi del vecchio regime zarista a succubi del nuovo ordine del Partito comunista. Una classe, quella degli agrari, per la maggior parte composta da analfabeti, “fantasmi” sociali non in grado, quindi, di scrivere memorie per raccontare ai posteri o al mondo il loro destino. È anche a loro nome che lo scrittore usa il proprio talento narrativo, che non cede mai al vittimismo, anzi: è il suo sarcasmo a vivificare le mostruose elencazioni di morte del potere sovietico, è l’ironia a fungere da “porta di servizio” per entrare nel dramma. E si sa: le verità di una casa padronale stazionano nelle cucine della servitù, o nelle “fogne”, come in questo caso.

    Il progetto gulag, che comprende carcerazioni, lavori forzati, fucilazioni di massa, in breve tempo attraversa però tutte le categorie e le classi sociali: ex esponenti di partito, dissidenti, ex combattenti arrestati al rientro in patria perché potenzialmente “contaminati” dalla propaganda nemica, sbandati, prostitute, delinquenti comuni, intere famiglie con donne, vecchi e bambini, eliminati dalla faccia della Storia. Un “autogenocidio”, come definito dalla filosofa Hannah Arendt, sorprendentemente simile a quello organizzato, anni dopo, da Hitler nei confronti degli ebrei, poi ripreso a sua volta da Stalin con le “etnie infedeli o sospettate”. “A furia di masticare un membro dopo l’altro”, si legge nel capitolo “Storia delle nostre fognature” di Arcipelago Gulag, “partendo dalla coda, le fauci arriveranno alla propria testa”.

    Nel triennio 1974-1976 l’autore russo è inarrestabile. Tra giugno e luglio del 1975 è a Washington e New York per quelli che diverranno famosi come i Tre discorsi agli americani, l’ultimo dei quali nell’aula del Senato, contenenti i punti cardine delle sue teorie, che faranno agitare non poco le sinistre mondiali, quella italiana in primis. Il riflettore dei suoi interventi è sull’assenza totale di libertà per il suo popolo, che dovrebbe poter fare a meno del benestare del Kgb per andare all’estero, dove raccontare così “la verità su ciò che succede in casa nostra” e dando inizio in tal modo a “un periodo che vorrei chiamare delle ‘mani aperte’”, cioè di libero scambio, reciproco, di informazioni.

    Ma il più rilevante dogma comunista infranto in quelle e altre occasioni riguarda la figura di Lenin, dalle forze progressiste sempre contrapposto come parte “buona” del bolscevismo nella polarizzazione storiografica con Stalin. Se, nel periodo precedente alla detenzione, anche Solženicyn considerava quest’ultimo una degenerazione del primo (Lenin era il teorico, Stalin il carnefice), la sua posizione post-Arcipelago Gulag cambia radicalmente: “Il Terrore non è un’invenzione di Stalin. Il Terrore è il vero cuore della rivoluzione leninista”. Del fondatore del bolscevismo viene messo in evidenza l’odio verso i “miserabili piccolo-borghesi” (un sentimento condiviso all’epoca anche dai nascituri fasci di combattimento mussoliniani), l’ideazione dei campi di lavoro forzato, la censura e la repressione brutale del dissenso con esecuzioni arbitrarie (“Senza Lenin, niente Stalin. Il primo ha aperto la strada al Gulag. Stalin non ha fatto che percorrerla fino in fondo”).

    L’establishment della sinistra italiana non la prende bene; sulle pagine di l’Unità, già nel febbraio 1974, è Giorgio Napolitano a mettere i puntini sulle “i” in un articolo intitolato “La nostra prospettiva. Ancora sul caso Solženicyn”: il futuro presidente della Repubblica non ci sta ad accettare “i tentativi di negare l’immensa portata liberatrice della Rivoluzione d’Ottobre”, o le “tendenze […] sull’onda dell’ultimo libro di Solženicyn […] ad attribuire sommariamente a Lenin la responsabilità delle deformazioni e dei guasti della politica staliniana”. L’articolo, che prosegue nell’elencazione dei mali di un imperialismo occidentale che vorrebbe snaturare la peculiarità del processo rivoluzionario sovietico, mette così in risalto la tendenza dell’intellighenzia europea di sinistra a omettere completamente l’idea che potesse esistere uno speculare imperialismo di stampo sovietico. Un fil-rouge che sembra connotare anche le sinistre dell’odierna “èra putiniana”, poco solerti, in nome di una generica autodeterminazione dei popoli, a intercettare le sane forme di dissenso in quelle aree al di fuori dell’Occidente, spesso teatro di calpestamento dei diritti umani.

    Ma ancor più dei Discorsi agli americani, in Europa danno letteralmente scandalo due interviste televisive concesse dal nostro, nel 1976, in Francia e in Spagna, la cui eco arriverà anche sulla stampa italiana. Una lettera al Corriere della Sera del 25 marzo di quell’anno mette bene in luce quanto stava accadendo: facendo riferimento a due articoli pubblicati nei giorni precedenti dal quotidiano milanese a firma Paolo Bugialli, il lettore esprime forti perplessità sulla cronaca redatta dal giornalista, riguardante l’apparizione televisiva spagnola dello scrittore russo: da essa “si ricava una immagine di Solženicyn che i libri smentiscono: trattarsi cioè di un uomo che per odio verso il comunismo è disposto a fare l’apologia del fascismo”. Le posizioni di Solženicyn, insomma, nello spirito degli anni Settanta, vengono subito incasellate nella categoria reazionaria; e i suoi moniti verso un Occidente obnubilato dal consumismo che, dando per scontata la propria libertà faticosamente conquistata, ha smarrito l’importanza della propria tradizione cristiana, sono interpretati come pericolose derive di destra. Ma la riflessione del nostro autore era, come egli stesso precisava, morale, non politico-ideologica, e si basava sulla cosiddetta tradizione innocentista ortodosso-slavista in base alla quale il popolo russo, identificato principalmente con la classe contadina tradizionale, sarebbe moralmente puro e non imputabile delle colpe storiche del comunismo e del totalitarismo sovietico. Contemporaneamente, nessuna democrazia liberale consumistica “alla occidentale” sarebbe automaticamente adatta, secondo il nostro, al cittadino russo.

    Ma allora, sembrano chiedergli gli intellettuali dell’epoca, quale sarebbe la pars costruens di tale visione?

    Una concezione antropologica diremmo quasi “pasoliniana”, quindi niente affatto reazionaria, al cui centro risiederebbe l’“intellighenzia rurale” del popolo che, nel caso della Russia, affonderebbe le proprie radici nell’alveo della religione ortodossa dell’epoca pre-bolscevica. Una ortodossia, quella di Solženicyn, di certo non assimilabile alla forma retriva e autoritaria venuta prepotentemente a galla nell’epoca eltsiniana e putiniana, ma legata semmai alla figura del teologo Aleksandr Men, suo padre spirituale, esponente del dissenso ortodosso, definito dalla stessa Tass di una Russia post-muro di Berlino, in occasione del suo barbaro assassinio avvenuto vicino Mosca nel 1990, “avversario del falso patriottismo, dell’antisemitismo e della violazione dei diritti umani”.

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    Oggi, l’eredità di Solženicyn, riabilitato e riaccolto nel suo paese nel 1994, solo all’occhio superficiale sembra preistoria nel mondo del terzo millennio: al contrario, molte delle sue riflessioni risuonano paurosamente attuali. Nell’intervista rilasciata alla rivista culturale italiana Prospettive nel mondo nell’ottobre 1976, intitolata eloquentemente “L’Occidente ci ha abbandonati”, a proposito della sua opposizione alla politica della distensione nella Guerra fredda tra Usa e Urss, risponde laconico: “Cos’è la distensione? Per l’Occidente libero, possiamo capirlo […] significa comportarsi in modo non spiacevole alla parte avversa. Ma, da parte dell’Urss, non c’è stato un solo giorno di distensione, [con la] propaganda si cerca di introdurre nella testa delle persone il concetto che voi […] succhiate il sangue dei paesi poveri. Se voi cessate la lotta ideologica, incoraggiate l’Urss con le vostre concessioni”. Il risultato? “A Mosca continuano gli arresti, e in Occidente nessuno protesta, nessuno osa nemmeno alzare gli occhi. Questo è per noi russi il risultato della vostra distensione. Grazie tante”.

    A futura (e presente) memoria.

    L'articolo (con paywall) può essere letto qui: https://www.micromega.net/aleksandr-solzenicyn.


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