L'INCREDIBILE MACCHINA DEL FANGO CONTRO UNA SOLA PERSONA: FRANCESCA ALBANESE.
di Lavinia Marchetti
Giusto pochi giorni fa scrivevo "Perché tanto odio nei confronti di Francesca Albanese?", oggi il quotidiano "Il Tempo", pessimo, davvero uno dei peggiori, scarica la bomba, un'altra, per screditare Acsecnarf Albanese. Lei non ha bisogno di difensori d'ufficio, ma toccare lei significa toccare anche tutto il movimento che io definirò NoProGen. Veniamo ai fatti.
Premetto che, in ogni caso, piaccia o meno, Hamas ha vinto le elezioni e governa a Gaza. Quindi chiunque abbia rapporti con la Palestina deve necessariamente avere rapporti con i funzionari di Hamas. Questo sia chiaro!
L'ARTICOLO di Giulia Sorrentino
Giulia Sorrentino, giornalista de Il Tempo, apre il suo attacco dichiarando che «Oramai le frequentazioni di Francesca Albanese sono più che note» e subito dopo si chiede «cosa ci facesse lì il nuovo idolo dei ProPal Francesca Albanese». L’insinuazione è chiara: la presenza della relatrice ONU a una conferenza del 2022 insieme a esponenti di Hamas basterebbe a macchiarla di collusione col terrorismo. Il metodo è la colpevolezza per associazione, un sillogismo capzioso che ignora ogni tipo di fatto. In realtà l’evento incriminato, intitolato “16 Years of Siege on Gaza: Impact and Prospects”, era un incontro pubblico sul blocco di Gaza; Albanese vi intervenne, da remoto, in qualità di esperta di diritto internazionale, senza alcun controllo sugli altri partecipanti. Non rappresentava Hamas né tantomeno ne condivideva la linea politica. Eppure Sorrentino liquida come una “scusa” la spiegazione fornita dalla stessa Albanese («Collegandomi, io come gli altri ospiti internazionali, non avevo alcuna idea di o controllo su chi fosse in sala» e preferisce suggerire torbide complicità: forse, insinua con malizia, per essere invitati bisogna «essere nelle grazie di chi quei circoli li presiede». Siamo alla diffamazione ovviamente. Si tratta di un’accusa priva di prove, che pretende di trasformare un convegno sulla crisi umanitaria a Gaza in un rito di affiliazione terroristica. La logica, questa sconosciuta!
La stessa malizia riemerge quando Sorrentino rievoca un precedente incontro di Albanese con Mohammed Hannoun, attivista filopalestinese vicino a Hamas. In quell’occasione Albanese riconobbe pubblicamente l’errore di non essersi informata sul profilo del co-relatore. Ma per la penna di Il Tempo ciò non conta: «siccome... Albanese ci sembra una persona che tutto ha fuorché deficit mnemonici, sarebbe il minimo che chiarisse il suo più totale distacco da tagliagola come quelli di Hamas». La giornalista impone una sorta di prova di purezza ideologica: vuole che Albanese abiuri e dichiari il proprio ripudio di ogni interlocutore sgradito, trattandola alla stregua di un’indiziata. È un ribaltamento indebito dell’onere della prova. Francesca Albanese, funzionario ONU, non è mai stata colta in attività di fiancheggiamento militante, il suo “peccato” è semmai aver dialogato con tutti gli attori rilevanti sul terreno, com’è dovere di chi indaga sulle violazioni dei diritti umani. Chiederle di certificare di non essere terrorista ricorda i tribunali ideologici maccartisti: si lancia un’accusa infamante e si esige che l’accusato provi la propria innocenza. Questa costruzione colpevolista risalta in tutta la sua ipocrisia se confrontata ai retroscena documentati sul rapporto pragmatico che Israele stesso ha intrattenuto con Hamas. Per anni l’establishment israeliano ha visto Hamas come un nemico conveniente, da tenere in vita per dividere i palestinesi. Netanyahu, ad esempio, dichiarava nel 2019 che «chiunque voglia bloccare la nascita di uno Stato palestinese deve favorire il rafforzamento di Hamas e i trasferimenti di fondi verso Gaza. Questo fa parte della nostra strategia: separare Gaza dalla Cisgiordania». In altre parole, il governo israeliano ha tollerato e indirettamente alimentato Hamas per calcolo politico, permettendo per anni l’afflusso di centinaia di milioni di dollari dal Qatar a Gaza “per scopi umanitari” ma di fatto utili a consolidare il controllo di Hamas. Di fronte a questo dato storico, un cinico patto col nemico utile orchestrato ai massimi livelli, è paradossale che l’indignazione cada su una giurista italiana colpevole soltanto di aver partecipato a un dibattito sul futuro di Gaza. L’astio verso Francesca Albanese si rivela pretestuoso: a infastidire non è una sua ipotetica contiguità con ambienti radicali (tesi smentita dai fatti), ma la sua efficacia nel porre domande scomode sul assedio di Gaza e sulle responsabilità di chi lo perpetua. Sorrentino preferisce spostare l’attenzione su presunti peccati di compagnia pur di non riconoscere la legittimità, anzi la necessità, del lavoro che Albanese svolge: documentare le violazioni dei diritti umani in Palestina e chiedere conto ai perpetratori, chiunque essi siano.
Nel pezzo di Il Tempo si accusa Albanese (e la “sinistra occidentale” in generale, tutti noi che non amiamo i genocdi) di essersi «piegata a una narrazione distorta», una narrazione che normalizzerebbe Hamas equiparandolo addirittura alla Resistenza antifascista (che a me non sembra un’ipotesi così lontana dal vero, con le dovute differenze) e che servirebbe a «mascherare l’antisemitismo, nascondendosi dietro la parola antisionismo». In piazza, scrive con tono allarmato, i manifestanti pro-Palestina gridano slogan come «Palestina libera dal fiume fino al mare», parole che a suo dire «sono il pane quotidiano che ghettizza... sempre più gli ebrei» Già, sono gli ebrei i ghettizzati, non i Palestinesi dopo 80 anni di colonialismo, apartheid, sostituzione etnica. Qui l’artificio retorico è doppio: da un lato si confonde volutamente antisionismo (critica all’ideologia e alle politiche dello Stato di Israele) con l’antisemitismo (odio verso gli ebrei in quanto tali); dall’altro si dipinge come minaccia persecutoria un semplice slogan politico di matrice anticoloniale.
Lo slogan “From the river to the sea, Palestine will be free”, tradotto in italiano «dal fiume al mare, la Palestina sarà libera» è un caso emblematico di questa mistificazione. La maggior parte dei media filo-israeliani si ostina a definirlo antisemita, seguendo la linea di Sorrentino, ma tale accusa è priva di logica. Traverso ne ricostruisce il significato autentico: quel motto invoca la libertà e l’uguaglianza per tutti gli abitanti della Palestina storica, e nasce dall’idea, sostenuta già da Edward Said, di «uno stato laico binazionale... in grado di garantire ai suoi cittadini ebrei e palestinesi la completa uguaglianza dei diritti». Non c’è traccia di odio antiebraico in questa aspirazione: si chiede libertà “fra il Giordano e il Mediterraneo” per un popolo oppresso, non certo la segregazione di un altro. Paradossale, semmai, è l’atteggiamento di chi grida allo scandalo: «perché i palestinesi non dovrebbero essere liberi fra il Giordano e il Mediterraneo?», domanda Traverso, smascherando l’assurdità dell’accusa. Davvero rivendicare la libertà di un popolo equivale a inneggiare a un nuovo Olocausto? L’argomentazione non regge. Tanto più se si considera che molti di coloro i quali bollano come antisemita ogni appello alla liberazione della Palestina sono gli stessi che altrove rifiutano l’idea di uno Stato etnoreligioso: eppure sostengono con fervore la pretesa di Israele di definirsi “Stato ebraico”. Anche qui il doppio standard è evidente. «Accusare di antisemitismo le manifestazioni in cui risuona lo slogan From the river to the sea è... paradossale», nota Traverso, poiché proprio gli ambienti più nazionalisti e xenofobi in Occidente (quelli che mai accetterebbero uno “Stato cristiano” nei propri paesi e che considerano anacronistica la Repubblica Islamica dell’Iran) sono in prima linea nel difendere lo status quo di Israele (che dal 2018 si è auto-definito “stato nazione del popolo ebraico”) e nel dipingere come estremista qualsiasi richiesta di uguali diritti tra ebrei e palestinesi. In Italia, non a caso, «gli amici più fedeli di Israele come “stato ebraico” si trovano nelle file della destra xenofoba», proprio quella destra che rifiuta di concedere la cittadinanza ai bambini nati da immigrati. Il tentativo di liquidare ogni protesta contro la guerra a Gaza come un rigurgito antisemita è dunque una falsificazione grossolana, utile solo a criminalizzare la solidarietà verso i palestinesi. Un’analisi onesta riconosce la distinzione fondamentale: odiare gli ebrei è antisemitismo; criticare Israele è esercizio di pensiero critico. Anzi, spesso è un dovere morale quando le critiche sono rivolte a politiche di occupazione e apartheid denunciate da innumerevoli osservatori internazionali.
Nel finale del suo articolo Sorrentino cambia registro e prova a mettere in imbarazzo chi sostiene Francesca Albanese sul piano etico. Si domanda «Perché concedere a questa donna le chiavi delle città italiane? ... La sinistra... a gara per averla tra le proprie fila», quando proprio la sinistra dovrebbe difendere i diritti umani e il femminismo. La stoccata è apertamente sarcastica: Albanese verrebbe celebrata dal fronte progressista nonostante spartisca il palco con fondamentalisti che negano i diritti, «in primis alle donne», quindi, conclude Sorrentino, sarebbe proprio “in nome di quel femminismo e dei diritti umani” che chiunque dovrebbe pretendere spiegazioni dalla giurista ONU. Nelle intenzioni polemiche de Il Tempo, questo j’accuse suona come la prova definitiva dell’ipocrisia di Albanese: una paladina dei diritti umani talmente incoerente da trovarsi fianco a fianco con i nemici giurati di quei diritti.
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