Ovviamente, oggi non si parla d’altro: l’accordo sui dazi tra Stati Uniti e Unione Europea. Ma leggendo analisi, commenti e titoli di giornale, sembra di assistere all’ennesima manifestazione di dissonanza cognitiva collettiva. La solita, prevedibile dissonanza cognitiva di chi non riesce — o non vuole — riconoscere il nesso tra le proprie scelte politiche e le conseguenze che ne derivano.

Partiamo dal solito ritornello sul fatto che l’Unione Europea non avrebbe dimostrato “abbastanza forza”. Ma la forza dell’UE non nasce per magia: esiste solo se gli Stati membri decidono di delegarne un po’ a Bruxelles. Una vera Unione, composta da governi convintamente europeisti, avrebbe potuto negoziare da una posizione di solidità e coerenza. Ma se in molti paesi al governo ci sono partiti — come Fratelli d’Italia — che europeisti non lo sono affatto, e che anzi strizzano l’occhio al trumpismo di ritorno, da dove esattamente dovrebbe arrivare questa famosa “forza europea”?

Non si può pretendere una UE forte quando gli stessi Stati che la compongono continuano a votare formazioni euroscettiche, o per lo meno profondamente ambigue sul progetto europeo.

Che tipo di forza può avere una Commissione europea, se il governo italiano — terza economia dell’Unione, ricordiamolo — la considera alla stregua di un nemico ideologico, e rifiuta persino di firmare il MES “per principio”? Che forza può avere se Berlino urla “no way” di fronte a qualsiasi proposta di aumento del bilancio comunitario? Se la Francia continua a sabotare qualsiasi ipotesi di unione bancaria, se l’Irlanda blocca la web tax per conservare il suo status di paradiso fiscale digitale, e se l’Olanda fa lo stesso per difendere i suoi vantaggi competitivi?

Di che diavolo di forza stiamo parlando, esattamente?


Questa è la dissonanza cognitiva di cui parlo: l’incapacità di cogliere il legame diretto tra l’elezione di governi euroscettici e l’indebolimento sistematico dell’Unione. Si pretende una UE “forte”, ma si votano sistematicamente partiti e candidati che, alla forza dell’Europa, sono apertamente ostili. E non a caso, i governi nazionali si dichiarano assolutamente soddisfatti dell’esito della trattativa con gli Stati Uniti.

Vediamolo nel dettaglio:

– l’Italia si porta a casa un’esenzione sui dazi per l’industria farmaceutica; – la Germania ottiene lo stesso trattamento per l’automotive, cioè per il suo cuore industriale; – l’Irlanda conserva la propria posizione come paradiso fiscale digitale, evitando una web tax più incisiva; – la Francia, storica beneficiaria di Airbus, ottiene l’esenzione nel settore aeronautico.

Tutti accontentati. Ogni sovranismo, ogni particolarismo nazionale è stato debitamente placato. I governi hanno difeso “i propri interessi”, e i cittadini applaudiranno, ciascuno nella propria bolla.

A questo punto, però, di che forza europea si sta vaneggiando?


Il prezzo della dissonanza cognitiva

Quel famoso 15% di dazi concordato è esattamente il costo della dissonanza cognitiva. È il conto che si paga quando si eleggono leader che dell’Europa non vogliono saperne, e poi ci si lamenta che l’Europa non ha forza.


Ma qual è, concretamente, il prezzo di questo accordo? Per capirlo davvero, bisogna guardare al funzionamento reale dei dazi, e non ai titoli semplificati da prima pagina.

Quando un’azienda americana importa beni dall’estero — e paga le tasse negli Stati Uniti — è tenuta a compilare specifiche dichiarazioni doganali. In base al valore dichiarato delle merci, dovrà poi versare allo Stato una certa percentuale sotto forma di dazio.

Già qui si apre una prima parentesi: gonfiare o sgonfiare il valore dichiarato delle merci non è così difficile, con un paio di artifici contabili ben collaudati. Ma anche a voler dare per scontata la buona fede, il vero nodo è un altro: il dazio si paga negli Stati Uniti, quando la merce è già arrivata, sdoganata e spesso già immessa nella catena di distribuzione.

E allora la domanda vera è: quanto “pesa” davvero un dazio del 15%, applicato a posteriori?

La risposta è: dipende. Dipende dal tipo di prodotto, dal mercato e dalla struttura dei margini. Ma alcune conseguenze sono abbastanza prevedibili. Quel 15% andrà a colpire, in modo asimmetrico, tutte le esportazioni europee che presentano almeno una delle seguenti caratteristiche:

– Margine di contribuzione basso: se il margine è già sottile, anche uno sconto parziale per non far ricadere il dazio sul cliente finale può rendere l’operazione antieconomica. Questo riguarda soprattutto beni a basso valore aggiunto o altamente commodificati.

– Bassa elasticità della domanda: se l’aumento di prezzo non può essere assorbito dal mercato senza una contrazione drastica delle vendite, allora il dazio finisce per rendere il prodotto europeo semplicemente non competitivo.

– Catena distributiva americana poco redditizia nel segmento finale: se i vari intermediari (importatori, grossisti, rivenditori) non hanno margini sufficienti per spalmarci sopra il 15% in più, la pressione ricade comunque sull’esportatore europeo.

Morale: quel dazio, formalmente applicato a valle, funziona da barriera d’ingresso a monte. E colpisce, con chirurgica precisione, proprio quei settori europei che già arrancavano e vendevano negli USA ad un margine molto basso, o quelli che offrivano piccoli margini agli importatori americani.

Vedremo nei prossimi giorni quanto sara' l'impatto globale sul PIL e sui volumi, ma non mi aspetto grandissimi disastri, onestamente.


Un altro punto singolare di questo accordo riguarda il cosiddetto “impegno europeo a investire negli Stati Uniti”. Un impegno che — a quanto pare — sarebbe stato preso anche dal Giappone. Ora, io non so esattamente in che modo il governo giapponese pensi di investire mezzo trilione di dollari, né se abbia davvero intenzione (o possibilità) di farlo. Ma una cosa la so per certo: la Commissione Europea non può investire un bel nulla. Né negli Stati Uniti, né tantomeno in Europa.

E allora, come dovrebbe funzionare questa faccenda?

Ursula von der Leyen andrà porta a porta tra le aziende europee, chiedendo loro di investire capitali propri in America? O, in alternativa, si presenterà alla BCE a chiedere di stampare moneta per acquistare debito pubblico statunitense?

Tra le due ipotesi, la seconda sembra persino la più “realistica” — e già questo dice tutto. Ma anche ammesso che si scelga questa strada, resta il fatto che il debito americano paga interessi non indifferenti. Quindi non si capisce bene perché acquistarlo in massa sarebbe un grande affare per gli USA. Al massimo, ma nel lungo termine, lo sarebbe per la BCE

Giornalismo da comunicato stampa

La cosa più surreale, però, è che tutti i giornali hanno riportato questo “impegno europeo a investire negli USA” come se fosse una clausola concreta, strutturata, operativa. Nessuno che si sia preso la briga di spiegare come, chi, quando, e con quali strumenti giuridici o finanziari dovrebbe avvenire questo “investimento europeo”.

Un’altra grande giornata per il giornalismo economico, evidentemente.


Anche sull’altro punto dell’accordo — quello che prevede un impegno europeo ad acquistare energia americana — c’è da essere parecchio scettici. In che modo, esattamente, la Commissione Europea o l’Unione Europea “comprerebbero” energia? Non possono farlo. Né dal punto di vista legale, né da quello operativo. E quindi? Qual è il piano?

L’unica possibilità è che Bruxelles vada a bussare alla porta delle imprese, chiedendo loro di acquistare gas o petrolio americano. Ma se quegli stessi industriali rispondono con un bel “no, grazie”, cosa succede? Chi li obbliga? Con quale strumento? E soprattutto: perché dovrebbero farlo, se oggi non lo fanno già?

Siamo in un contesto nel quale, ogni estate, la sovrapproduzione fotovoltaica fa crollare i prezzi dell’energia sulla rete, arrivando persino a valori negativi. Durante l’inverno, sta cominciando a succedere lo stesso con l’eolico. I problemi energetici dell’Europa non sono legati tanto alla scarsità, quanto alla gestione dell’intermittenza. Le smart grid esistono esattamente per questo.

Quindi, anche ammesso che serva energia aggiuntiva, chi dovrebbe comprarla dagli Stati Uniti solo perché lo dice un accordo? Se ci fosse una reale necessità, la comprerebbero già — senza bisogno di impegni politici, proclami o strette di mano.

Ancora una volta: annunciare è facile. Farlo accadere è un altro paio di maniche.


In definitiva, cosa vediamo davvero in questo accordo?

– Settore per settore, ogni governo ha ottenuto una salvaguardia su misura per i propri interessi nazionali. – È stato introdotto un dazio del 15%, che andrà a colpire soprattutto le esportazioni a bassa redditività. – Sono state promesse ondate di investimenti europei negli Stati Uniti — che l’Unione Europea, come istituzione, non può tecnicamente realizzare. – È stato promesso l’acquisto di energia americana — un’altra cosa che la UE, semplicemente, non può fare come soggetto politico.

L’impressione che ne ricavo è chiara: siamo davanti a una demolizione controllata dei rapporti commerciali.

Tutto ciò che è strutturalmente fragile — esportazioni deboli, mercati non protetti, settori con margini risicati — verrà sacrificato. E tutto ciò che conta davvero — farmaci, auto, aerospazio, finanza digitale — è stato messo al sicuro, paese per paese.

Gli investimenti europei negli USA, se mai arriveranno, richiederanno anni. L’eventuale acquisto di energia, idem. Sono promesse senza struttura, impegni senza gambe. Ma il dazio del 15%, quello è già lì. Reale, immediato, selettivo.

E allora il messaggio che ricevo da questo accordo è inequivocabile: i rapporti economici tra Europa e Stati Uniti non verranno troncati di colpo, ma smontati con cura. Una lenta e chirurgica demolizione controllata del commercio transatlantico.

E se era proprio questo l’obiettivo, allora il risultato è perfetto.

Non so a quanti piacera'.

Uriel Fanelli


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